Il 24 agosto, il giorno del terremoto, se ne è andata la mia amica Fiorella. La notizia me l'ha data la Paola, che vive a Milano ed era per le vacanze qui dalla sua mamma. Se la Paola non me l'avesse detto io non l'avrei saputo, perché il contatto con la Fiorella era la Fiorella e ormai non sentivo suo marito da anni, ne avevo notizie attraverso lei, mentre suo figlio Lorenzo l'ho visto solo da piccolissimo. Suo figlio si può vedere qui. E' un musicista.
La Fiorella viveva a Milano da tanti anni, ma era toscana, di Cecina, e aveva lì una casa di famiglia, dove si trovava quando si è sentita male e quasi subito pare sia entrata in coma, senza più risvegliarsi, fino a quando, una settimana dopo, se ne è andata. Aveva, credo, 66 o 67 anni, era in pensione, dopo aver insegnato per tanti anni. Ho dimenticato, qualche anno fa avrei saputo dire l'età precisa della Fiorella. La Paola me l'ha detto pianino, con garbo, ma lo stesso sono rimasta sconvolta. L'idea di perdere la Fiorella e non saperlo neanche mi ha fatto un brutto effetto. Lorenzo ha detto alla Paola che non ci sarebbe stato un funerale, non sono credenti, o almeno che io ricordi non sono mai stati religiosi.
Per il mio babbo non fu fatto un funerale e neanche per la mia mamma. Non lo volevano. Per il babbo però ci fu una specie di cerimonia di saluto, che fu anche quella monopolizzata da mia madre, che si mise quasi a gridare mentre un ingegnere dell'Ordine ricordava la sua figura professionale. Per la mia mamma ci trovammo, per caso, insieme diverse donne, tutte donne e tutte parenti da parte del nonno, e la salutammo chiacchierando e raccontando cose della sua vita, alcune delle quali non sapevo nemmeno io. In ogni modo io odio i funerali, li trovo di solito anonimi e freddi, utili solo per ritrovarsi fra persone che purtroppo non si vedono spesso, ma si vogliono bene. Di solito il sacerdote dice cose insipide o insensate, salvo eccezioni; cose che niente hanno a che vedere con la persona che se ne è andata e poco anche col grande mistero della vita e della morte. Capisco che deve essere complicato essere originali e empatici ogni volta con dei quasi perfetti estranei.
Al funerale del babbo di un nostro amico, che ha un cognome non italiano, il sacerdote sbagliò cambiando una vocale: glielo dissero, ma lui non capì o comunque pareva non gli importasse e continuò per tutta la messa a sbagliare, con un effetto che era comico, ma che mi fece parecchio innervosire.
Un saluto in ogni modo ci vuole. Per me, è necessario; è un congedo anche se poi io penso, contro ogni ragione, che ci riincontreremo. E siccome non c'ero alla morte della mia amica, ed era improbabile che ci fossi, visto come è andata, lo faccio qui, di salutarla. Al solito chi legge, legge, chi si annoia, smette. So che mi dilungo, è il mio modo e non posso farci niente. Non voglio farci niente. E' il mio modo di tenere ancora un pò la Fiorella con me e di consolarmi della sua assenza. Sarà un racconto piuttosto lungo.
Facevamo l'Università, ero al secondo anno e stavo in Via dei Serragli, di là d'Arno, come dicono a Firenze, in una vecchia casa molto fredda e abbastanza inospitale, se non per la Sandra, che stava in camera con me e che non conoscevo, prima. Era molto cara, la Sandra Terranova, e la saluto con affetto immutato. Veniva dal Valdarno. I miei e i suoi si conoscevano, il suo babbo, il dottor Terranova, l'avevo sentito nominare, in casa. La Sandra suonava la chitarra e cantava certe tristi canzoni di Claudio Lolli e certe altre, meno tristi, di Guccini.
Nei viaggi in treno sentiva dei ragazzini chiacchierare, con l'accento del posto.
Una ragazzina, una mattina si truccava con un piccolo specchio in mano e disse alla sua amica, riferendosi al ragazzo che avrebbe incontrato a Firenze e al colore che si stava mettendo sul viso "Ieri mi so' mess'i' verde, oggi mi mett'i' rosso. Gni garberò?"
Capisco: senza il sonoro non si apprezza a sufficienza.
Un altro giorno la Sandra sentì questo "Mi so' messa con Samuele. C'ha la vespa colla radio e l'adesivo di Pupo."
Nonostante la Sandra e la Vespa con la radio ero abbastanza triste. L'università non funzionava per me e mi sentivo come un naufrago. Forse avevo sentore del periodo terribile verso cui mi stavo, poco consapevolmente, avviando. La Paola, con cui avevo convissuto l'anno prima,con lei e altre amiche, intanto aveva trovato un'altra casa. L'aveva trovata tramite Enzo, il suo ragazzo di allora, che faceva l'Accademia d'Arte. Enzo studiava anche con una ragazza di Cecina, la Fiorella, che stava in una casa strana, perché era tappezzata di libri quasi in tutte le stanze. Un appartamento normale di una via normale e borghese di Firenze, fatta di casine a due piani, pieno di carta. Io e la Paola ci siamo sforzate di ricordare il nome della strada ma non c'è stato niente da fare. Invece mi ricordo il nome del proprietario, un professore dell'Università di Enrico, il fidanzato della Fiorella. Il professor Maestro. Doveva essere andata così: Enrico aveva sparso la voce che alla sua ragazza serviva un alloggio a Firenze e il professore aveva ricordato di avere quella casa piena di libri, che non poteva proporre quasi a nessuno. Finii per andarci anch'io, seguendo la Paola, come il naufrago che trova un approdo temporaneo. Per la Fiorella era l'anno finale dell'Accademia: il progetto era che avrebbe finito e poi lei e Enrico si sarebbero sposati e sarebbero andati a Milano, dove per lui c'era quasi sicuramente un buon lavoro. La Fiorella era figlia di gente abbastanza povera. Avrebbe voluto fare l'Accademia, ma non aveva potuto e aveva lavorato per qualche anno. Poi si era decisa a realizzare questo sogno e aveva vissuto a Firenze in casa di una signora anziana scambiando l'alloggio con la compagnia e qualche lavoro di pulizia. L'ultimo anno lo stava trascorrendo nella casa dei libri. Era sorridente e molto accogliente e bella, anche. Quanti tè intorno alla tavola di cucina, tè in foglie, di lunga preparazione. L'aria della casa era carica di polvere dei libri e di energia frizzante dei nuovi progetti di vita, non tanto miei, ma delle altre ragazze. Quel formicolio alla base della colonna vertebrale.
La casa aveva una particolarità curiosa, un'altra: la finestra del piccolo bagno dava su una corte interna piccolissima. Sotto c'era una pasticceria e quando si andava in bagno non c'erano né puzzi, né odori di detersivo, ma odore di vaniglia e di bombolone. Forse un misto fra puzzi e bombolone. Era una cosa del tutto spiazzante e non sgradevole.
I libri degli scaffali erano edizioni economiche, giornali, riviste e testi su cui studiare materie scientifiche. Al proprietario doveva risultare difficile separarsene, ma era una follia tenere una casa intera in quel modo e per quell'uso. Frugando trovai due libri che poi sono diventati libri della vita: Il gruppo, di Mary Mac Carthy, e "Un americano alla corte di re Artù" di Mark Twain, dico solo che la notte che cominciai a leggere questo secondo non riuscivo a smettere di ridere. Devo ricordarmi di scriverci qualcosa. Di quei mesi ricordo solo che avrei voluto che non finissero più. Un tempo sospeso in cui potevo caricarmi delle forze degli altri e riposare.
...con la Fiorella e Enzo all'Accademia, a guardare la loro classe dipingere un nudo nelle vecchie stanze fresche.
Con la Fiorella e la Paola a cena intorno alla tavola di cucina a ridere insieme.
Con la Fiorella a parlare, venti anni prima di tutto, di ricette di cucina del mondo.
Con la Fiorella e la Paola a parlare di pillola anticoncezionale.
Con la Fiorella a parlare di arredamento bello e che costa poco. Con la Fiorella a parlare di sessualità.
Con la Fiorella e la Paola a ridere per le barzellette che allora mi piaceva raccontare e cominciavo a ridere prima della fine e facevo ridere tutti anche se non avevano capito come andava a finire. Si rideva anche di certi personaggi della famiglia di Cecina, uno fra tutti un nonno che quando andava a fare la pipì cercava l'ammennicolo nelle mutande e diceva "Un do' l'è andato? Eppure era qui.."
Con la Fiorella a parlare di Arte. Con la Fiorella a parlare di come si fa una litografia...Con la Fiorella a parlare di come tutti, all'Accademia, finissero per cercare di dipingere come il Farulli, l'insegnante, pittore toscano degli altiforni, famoso in quel periodo e molto amato dai suoi studenti.
La Fiorella aveva una voce dolce con un accento toscano del mare non così forte, un modo di battere la lingua contro i denti tutto suo, che rendeva le consonanti dentate più gentili, e una risata indimenticabile.
Poi la Fiorella si preparò ad andare a Milano e ci si disse addio, anzi arrivederci. La prima volta l'andai a trovare in una casa minima che avevano trovato vicino all'ospedale di Niguarda, che quando uscivi dal portone del palazzo rischiavi che un'ambulanza ti falciasse la gamba fino al ginocchio. Dormii nel sacco a pelo nel corridoio fra l'unica stanza e la cucina, con la sensazione di essere piccolissima in terra e la felicità di esser lì. Doveva essere il 25 aprile perché si andò in Piazza Duomo, di lontano vidi il presidente Pertini, mi emozionai, mi venne da piangere e cercai di non farmene accorgere.
Un'altra volta io e Mauro ( a quel punto c'era Mauro e le cose cominciavano a migliorare) si fu ospitati in un'altra casa, a Monza, e potemmo vedere le varie mostre dislocate in giro in città, a Milano, su Mirò.
Bello. E la corona di Ferro nella cattedrale di Monza, anche quell'oggetto mi emozionò parecchio, è un manufatto che parla di un'epoca lontana per me più distante di quella romana, sebbene più recente. Un oggetto barbaro. Milano porta tracce profonde dei barbari e dell'impero d'Oriente ed emoziona.
Io e Mauro al Poldi Pezzoli e alla Galleria di Brera e al ritorno ne parlavamo con la Fiorella ed Enrico.
Una vacanza insieme a Cogne, in una piccola casa in affitto, dove la mattina si cucinava del porridge, che Enrico forse aveva imparato a mangiare in uno dei suoi viaggi di lavoro. Enrico faceva lunghi viaggi per lavoro, in posti davvero lontani, tipo l'Alaska, e raccontava di aver mangiato chele di granchio grosse come un braccio. Il porridge è molto salutare, ma non si riesce a non farlo appiccicare alla pentola e dopo puzzicchia di bruciato. Mangiavamo porridge, poi facevamo delle passeggiate lunghissime studiandole prima sulle cartine dei sentieri. Una volta andammo a Valnontey e di lì al rifugio Sella sul Gran Paradiso. Arrivati ci sedemmo ad un tavolo all'interno, ma quasi subito il gestore ci disse di alzarci, che preparavano per il pranzo. Gli chiedemmo per piacere di lasciarci stare lì, che tanto volevamo pranzare, e lui gentilmente ci lasciò fare e poi si fermò a chiacchierare. Ci suggerì di tornare a valle per un altra strada, il sentiero dell'Herbetet. All'andata avevamo fatto una certa fatica a salire, la Fiorella aveva dovuto fare diverse soste. Ci sono giorni che le prestazioni fisiche risultano penose, io in quel periodo avevo la cistite e mi dovevo fermare spesso per fare solo un goccino di pipì che bruciava come il fuoco, ma ripartimmo per l'Herbetet piuttosto baldanzosi. Ricordo che avevo le scarpe leggere da ginnastica. Per il sentiero trovammo altri che venivano dalla direzione opposta; chiedemmo com'era e questi, con aria severa, dissero come fosse niente che c'era un pezzo con la corda. Non mi pare che capimmo di che si trattava finché non si fu lì. Il sentiero era crollato e avevano messo un asse a traverso per un paio di metri e una corda alla parete per tenersi: si passava, ma non si doveva guardare di sotto, perché c'era un vero precipizio. Ora sarebbe stato chiuso il tratto, perché davvero si finisce per seguire la gente in bagno, nel caso che, pisciando di fuori, scivolassero sulla propria pipì.
Insomma: passammo tutti, anche Enrico, che qualche giorno prima era stato colto, su un altro sentiero molto più facile, da un improvviso attacco di vertigini. Si era fermato, aveva detto "Aspetta aspetta..." ed era scivolato a sedere con la schiena appiccicata alla parete e gli occhi chiusi, mentre davanti, cioè sul lato del sentiero, c'era un precipizio o almeno una discesa molto ripida e molto lunga. Ci volle un pò per ripartire. La strada dell'Herbetet si rivelò lunga e piena di sorprese, dopo il primo incontro niente più umani, ma qualche stambecco in lontananza, e ancora più lontano, camosci e poi tanti fischi molto forti che sembravano annunciare il nostro passaggio sulla via, ed erano, si capì poi, versi di allarme delle marmotte. Arrivammo a valle che era ora di cena. Fine della prima puntata.
La Fiorella viveva a Milano da tanti anni, ma era toscana, di Cecina, e aveva lì una casa di famiglia, dove si trovava quando si è sentita male e quasi subito pare sia entrata in coma, senza più risvegliarsi, fino a quando, una settimana dopo, se ne è andata. Aveva, credo, 66 o 67 anni, era in pensione, dopo aver insegnato per tanti anni. Ho dimenticato, qualche anno fa avrei saputo dire l'età precisa della Fiorella. La Paola me l'ha detto pianino, con garbo, ma lo stesso sono rimasta sconvolta. L'idea di perdere la Fiorella e non saperlo neanche mi ha fatto un brutto effetto. Lorenzo ha detto alla Paola che non ci sarebbe stato un funerale, non sono credenti, o almeno che io ricordi non sono mai stati religiosi.
Per il mio babbo non fu fatto un funerale e neanche per la mia mamma. Non lo volevano. Per il babbo però ci fu una specie di cerimonia di saluto, che fu anche quella monopolizzata da mia madre, che si mise quasi a gridare mentre un ingegnere dell'Ordine ricordava la sua figura professionale. Per la mia mamma ci trovammo, per caso, insieme diverse donne, tutte donne e tutte parenti da parte del nonno, e la salutammo chiacchierando e raccontando cose della sua vita, alcune delle quali non sapevo nemmeno io. In ogni modo io odio i funerali, li trovo di solito anonimi e freddi, utili solo per ritrovarsi fra persone che purtroppo non si vedono spesso, ma si vogliono bene. Di solito il sacerdote dice cose insipide o insensate, salvo eccezioni; cose che niente hanno a che vedere con la persona che se ne è andata e poco anche col grande mistero della vita e della morte. Capisco che deve essere complicato essere originali e empatici ogni volta con dei quasi perfetti estranei.
Al funerale del babbo di un nostro amico, che ha un cognome non italiano, il sacerdote sbagliò cambiando una vocale: glielo dissero, ma lui non capì o comunque pareva non gli importasse e continuò per tutta la messa a sbagliare, con un effetto che era comico, ma che mi fece parecchio innervosire.
Un saluto in ogni modo ci vuole. Per me, è necessario; è un congedo anche se poi io penso, contro ogni ragione, che ci riincontreremo. E siccome non c'ero alla morte della mia amica, ed era improbabile che ci fossi, visto come è andata, lo faccio qui, di salutarla. Al solito chi legge, legge, chi si annoia, smette. So che mi dilungo, è il mio modo e non posso farci niente. Non voglio farci niente. E' il mio modo di tenere ancora un pò la Fiorella con me e di consolarmi della sua assenza. Sarà un racconto piuttosto lungo.
Facevamo l'Università, ero al secondo anno e stavo in Via dei Serragli, di là d'Arno, come dicono a Firenze, in una vecchia casa molto fredda e abbastanza inospitale, se non per la Sandra, che stava in camera con me e che non conoscevo, prima. Era molto cara, la Sandra Terranova, e la saluto con affetto immutato. Veniva dal Valdarno. I miei e i suoi si conoscevano, il suo babbo, il dottor Terranova, l'avevo sentito nominare, in casa. La Sandra suonava la chitarra e cantava certe tristi canzoni di Claudio Lolli e certe altre, meno tristi, di Guccini.
Nei viaggi in treno sentiva dei ragazzini chiacchierare, con l'accento del posto.
Una ragazzina, una mattina si truccava con un piccolo specchio in mano e disse alla sua amica, riferendosi al ragazzo che avrebbe incontrato a Firenze e al colore che si stava mettendo sul viso "Ieri mi so' mess'i' verde, oggi mi mett'i' rosso. Gni garberò?"
Capisco: senza il sonoro non si apprezza a sufficienza.
Un altro giorno la Sandra sentì questo "Mi so' messa con Samuele. C'ha la vespa colla radio e l'adesivo di Pupo."
Nonostante la Sandra e la Vespa con la radio ero abbastanza triste. L'università non funzionava per me e mi sentivo come un naufrago. Forse avevo sentore del periodo terribile verso cui mi stavo, poco consapevolmente, avviando. La Paola, con cui avevo convissuto l'anno prima,con lei e altre amiche, intanto aveva trovato un'altra casa. L'aveva trovata tramite Enzo, il suo ragazzo di allora, che faceva l'Accademia d'Arte. Enzo studiava anche con una ragazza di Cecina, la Fiorella, che stava in una casa strana, perché era tappezzata di libri quasi in tutte le stanze. Un appartamento normale di una via normale e borghese di Firenze, fatta di casine a due piani, pieno di carta. Io e la Paola ci siamo sforzate di ricordare il nome della strada ma non c'è stato niente da fare. Invece mi ricordo il nome del proprietario, un professore dell'Università di Enrico, il fidanzato della Fiorella. Il professor Maestro. Doveva essere andata così: Enrico aveva sparso la voce che alla sua ragazza serviva un alloggio a Firenze e il professore aveva ricordato di avere quella casa piena di libri, che non poteva proporre quasi a nessuno. Finii per andarci anch'io, seguendo la Paola, come il naufrago che trova un approdo temporaneo. Per la Fiorella era l'anno finale dell'Accademia: il progetto era che avrebbe finito e poi lei e Enrico si sarebbero sposati e sarebbero andati a Milano, dove per lui c'era quasi sicuramente un buon lavoro. La Fiorella era figlia di gente abbastanza povera. Avrebbe voluto fare l'Accademia, ma non aveva potuto e aveva lavorato per qualche anno. Poi si era decisa a realizzare questo sogno e aveva vissuto a Firenze in casa di una signora anziana scambiando l'alloggio con la compagnia e qualche lavoro di pulizia. L'ultimo anno lo stava trascorrendo nella casa dei libri. Era sorridente e molto accogliente e bella, anche. Quanti tè intorno alla tavola di cucina, tè in foglie, di lunga preparazione. L'aria della casa era carica di polvere dei libri e di energia frizzante dei nuovi progetti di vita, non tanto miei, ma delle altre ragazze. Quel formicolio alla base della colonna vertebrale.
La casa aveva una particolarità curiosa, un'altra: la finestra del piccolo bagno dava su una corte interna piccolissima. Sotto c'era una pasticceria e quando si andava in bagno non c'erano né puzzi, né odori di detersivo, ma odore di vaniglia e di bombolone. Forse un misto fra puzzi e bombolone. Era una cosa del tutto spiazzante e non sgradevole.
I libri degli scaffali erano edizioni economiche, giornali, riviste e testi su cui studiare materie scientifiche. Al proprietario doveva risultare difficile separarsene, ma era una follia tenere una casa intera in quel modo e per quell'uso. Frugando trovai due libri che poi sono diventati libri della vita: Il gruppo, di Mary Mac Carthy, e "Un americano alla corte di re Artù" di Mark Twain, dico solo che la notte che cominciai a leggere questo secondo non riuscivo a smettere di ridere. Devo ricordarmi di scriverci qualcosa. Di quei mesi ricordo solo che avrei voluto che non finissero più. Un tempo sospeso in cui potevo caricarmi delle forze degli altri e riposare.
...con la Fiorella e Enzo all'Accademia, a guardare la loro classe dipingere un nudo nelle vecchie stanze fresche.
Con la Fiorella e la Paola a cena intorno alla tavola di cucina a ridere insieme.
Con la Fiorella a parlare, venti anni prima di tutto, di ricette di cucina del mondo.
Con la Fiorella e la Paola a parlare di pillola anticoncezionale.
Con la Fiorella a parlare di arredamento bello e che costa poco. Con la Fiorella a parlare di sessualità.
Con la Fiorella e la Paola a ridere per le barzellette che allora mi piaceva raccontare e cominciavo a ridere prima della fine e facevo ridere tutti anche se non avevano capito come andava a finire. Si rideva anche di certi personaggi della famiglia di Cecina, uno fra tutti un nonno che quando andava a fare la pipì cercava l'ammennicolo nelle mutande e diceva "Un do' l'è andato? Eppure era qui.."
Con la Fiorella a parlare di Arte. Con la Fiorella a parlare di come si fa una litografia...Con la Fiorella a parlare di come tutti, all'Accademia, finissero per cercare di dipingere come il Farulli, l'insegnante, pittore toscano degli altiforni, famoso in quel periodo e molto amato dai suoi studenti.
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Questo che a me non mi riesce di vedere, ma forse se ci cliccate sopra si vede, è un dipinto di Farulli |
Poi la Fiorella si preparò ad andare a Milano e ci si disse addio, anzi arrivederci. La prima volta l'andai a trovare in una casa minima che avevano trovato vicino all'ospedale di Niguarda, che quando uscivi dal portone del palazzo rischiavi che un'ambulanza ti falciasse la gamba fino al ginocchio. Dormii nel sacco a pelo nel corridoio fra l'unica stanza e la cucina, con la sensazione di essere piccolissima in terra e la felicità di esser lì. Doveva essere il 25 aprile perché si andò in Piazza Duomo, di lontano vidi il presidente Pertini, mi emozionai, mi venne da piangere e cercai di non farmene accorgere.
Un'altra volta io e Mauro ( a quel punto c'era Mauro e le cose cominciavano a migliorare) si fu ospitati in un'altra casa, a Monza, e potemmo vedere le varie mostre dislocate in giro in città, a Milano, su Mirò.
Bello. E la corona di Ferro nella cattedrale di Monza, anche quell'oggetto mi emozionò parecchio, è un manufatto che parla di un'epoca lontana per me più distante di quella romana, sebbene più recente. Un oggetto barbaro. Milano porta tracce profonde dei barbari e dell'impero d'Oriente ed emoziona.
Io e Mauro al Poldi Pezzoli e alla Galleria di Brera e al ritorno ne parlavamo con la Fiorella ed Enrico.
Una vacanza insieme a Cogne, in una piccola casa in affitto, dove la mattina si cucinava del porridge, che Enrico forse aveva imparato a mangiare in uno dei suoi viaggi di lavoro. Enrico faceva lunghi viaggi per lavoro, in posti davvero lontani, tipo l'Alaska, e raccontava di aver mangiato chele di granchio grosse come un braccio. Il porridge è molto salutare, ma non si riesce a non farlo appiccicare alla pentola e dopo puzzicchia di bruciato. Mangiavamo porridge, poi facevamo delle passeggiate lunghissime studiandole prima sulle cartine dei sentieri. Una volta andammo a Valnontey e di lì al rifugio Sella sul Gran Paradiso. Arrivati ci sedemmo ad un tavolo all'interno, ma quasi subito il gestore ci disse di alzarci, che preparavano per il pranzo. Gli chiedemmo per piacere di lasciarci stare lì, che tanto volevamo pranzare, e lui gentilmente ci lasciò fare e poi si fermò a chiacchierare. Ci suggerì di tornare a valle per un altra strada, il sentiero dell'Herbetet. All'andata avevamo fatto una certa fatica a salire, la Fiorella aveva dovuto fare diverse soste. Ci sono giorni che le prestazioni fisiche risultano penose, io in quel periodo avevo la cistite e mi dovevo fermare spesso per fare solo un goccino di pipì che bruciava come il fuoco, ma ripartimmo per l'Herbetet piuttosto baldanzosi. Ricordo che avevo le scarpe leggere da ginnastica. Per il sentiero trovammo altri che venivano dalla direzione opposta; chiedemmo com'era e questi, con aria severa, dissero come fosse niente che c'era un pezzo con la corda. Non mi pare che capimmo di che si trattava finché non si fu lì. Il sentiero era crollato e avevano messo un asse a traverso per un paio di metri e una corda alla parete per tenersi: si passava, ma non si doveva guardare di sotto, perché c'era un vero precipizio. Ora sarebbe stato chiuso il tratto, perché davvero si finisce per seguire la gente in bagno, nel caso che, pisciando di fuori, scivolassero sulla propria pipì.
Insomma: passammo tutti, anche Enrico, che qualche giorno prima era stato colto, su un altro sentiero molto più facile, da un improvviso attacco di vertigini. Si era fermato, aveva detto "Aspetta aspetta..." ed era scivolato a sedere con la schiena appiccicata alla parete e gli occhi chiusi, mentre davanti, cioè sul lato del sentiero, c'era un precipizio o almeno una discesa molto ripida e molto lunga. Ci volle un pò per ripartire. La strada dell'Herbetet si rivelò lunga e piena di sorprese, dopo il primo incontro niente più umani, ma qualche stambecco in lontananza, e ancora più lontano, camosci e poi tanti fischi molto forti che sembravano annunciare il nostro passaggio sulla via, ed erano, si capì poi, versi di allarme delle marmotte. Arrivammo a valle che era ora di cena. Fine della prima puntata.