In questo capitolo si parla di traslochi. Quanto può essere difficile un trasloco? Anche se qualcuno ha girato mezzo mondo, appena trova un luogo da chiamare casa, per quanto scomodo, gli rimane subito difficile separarsene.
Si parla anche di razzismo, prendendolo molto alla larga. Tutto questo attraverso la figura di un bambino molto lungo e molto nero.
I primi tempi che vivevamo qui girava per il paesino un trio di ragazzini: uno "nativo" del posto, biondo dalla pelle chiara, uno indiano Sik e uno africano, molto lungo e molto nero. Amici per la pelle per anni. Ora che sono cresciuti non li vedo più, credo che le due famiglie straniere si siano trasferite.
Si parla anche di razzismo, prendendolo molto alla larga. Tutto questo attraverso la figura di un bambino molto lungo e molto nero.
I primi tempi che vivevamo qui girava per il paesino un trio di ragazzini: uno "nativo" del posto, biondo dalla pelle chiara, uno indiano Sik e uno africano, molto lungo e molto nero. Amici per la pelle per anni. Ora che sono cresciuti non li vedo più, credo che le due famiglie straniere si siano trasferite.
ABU
Abu era il figlio di Nthanda, aveva nove anni ed era un ragazzino magro e lungo, molto nero. Era talmente lungo che a vederlo sembrava una marionetta scoordinata e sua madre lo chiamava anche Dede, che in swahili vuol dire cavalletta. Sembrava abbastanza allarmato dal fatto di cambiare casa. La casina che avevano messo a disposizione Paolo e Gigliola gli piaceva, era graziosa e circondata dal giardino, ma la “stamberga” era stata la prima vera casa da anni e faceva fatica a lasciarla. Si sentiva in pericolo e inquieto. Un pomeriggio Gigliola gli chiese di andare con lei al fosso della Chianella, per fare una passeggiatina.
“Può venire con me, mamma Nthanda?” chiese Gigliola, e ottenuto il permesso dalla mamma andarono insieme. Faceva tanto caldo e si sedettero lungo il rio in un punto che a Gigliola piaceva molto, all'ombra di un ontano, in una curva dove l'acqua era più profonda. Era molto bello, se non si consideravano le zanzare e i tafani che ronzavano continuamente intorno posandosi su di loro senza riuscire a bucare la pelle che il SYM aveva reso impenetrabile, ma era lo stesso molto fastidioso, perché, non trovando altro accesso, venivano tutt'intorno alle narici, agli occhi e alle orecchie, dove la protezione SYM era meno spessa. Continuavano a scacciarle con le mani.
Gigliola disse: “Sei contento di venire a vivere qui? Non cambi molto, sei vicino al paese lo stesso...”
“Sì.” Rispose serio il bambino strappando fili d'erba con una mano e con l'altra allontanando gli insetti.
“Cos'è che non ti piace? Perché si vede bene che qualcosa non ti piace, sai?”
“Non mi piace che la mamma lavori.”
“Ah. E perché?”
“Nei posti dove siamo stati le mamme non lavoravano, lavoravano i babbi. Le mamme facevano da mangiare e stavano con i bambini. Nessuna lavorava.”
“Ma la tua mamma ha lavorato, se non in questo lungo periodo che ha dovuto fuggire da tanti pericoli. E tu il babbo non ce l'hai, quindi è lei che deve lavorare. “
“Sì, ma non mi piace che faccia i mestieri da te. I bambini dicono che è un brutto lavoro, dicono che è fare la serva. ”
“Oh!” -disse Gigliola e rimase per un po' senza parole. Poi disse: “Proverò a dirti quello che penso, ma devi stare attento, perché è un discorso da persone grandi, non da bambini. Sei pronto ad ascoltarlo?”
“Sì...” disse Abu, un pò intimorito.
“Tu sei un bambino un po' speciale, perché all'età tua non tutti hanno visto quello che hai visto tu, o hanno vissuto nei campi profughi, o tutte le cose che sono capitate a te e alla mamma e io ancora non so... magari ce le racconti un po' per volta, a me e agli altri bambini.. che ne dici?”
“Forse.” disse Abu.
“Comunque tu sei un po' speciale e anche la tua mamma lo è. Scommetto che pochissime mamme che hai incontrato erano intelligenti come la tua. Il tuo babbo non c'è più e lei ha dovuto fare da mamma e da babbo. Ora siete qui e qui per vivere si deve lavorare, ma la tua mamma lo faceva già in Africa. Lo faceva in un posto dove le donne lavorano quasi solo in casa, per la famiglia. E allora qualche volta sono quasi schiave. Serve, come hai detto tu. La tua mamma in più, ha studiato. Studiare fa la differenza, una donna che ha studiato non sarà mai una serva. E lavorare si deve. Altrimenti si vive di elemosina.”
“Cos'è elemosina?”
“E' quando altri ti danno soldi, ma tu non li guadagni, li devi chiedere. Non guadagni il tuo diritto di avere soldi per vivere, dipendi da altri che potrebbero non darteli più, magari per darli a qualcuno che ha più bisogno di te. Forse non ti danno mai quanto ti serve.”
“Mmmhh..”fece Abu rimuginando. Gigliola si disse che gli stava dicendo troppe cose, alcune delle quali non erano facili da spiegare. Chissà se riusciva a cogliere il significato del suo discorso?
“Vedi, io ho solo questo lavoro da offrire, quello di fare le pulizie. So che la mamma può fare molto di più, ma non ho un'Università, solo una casa. E la tua mamma dovrebbe lavorare in un'Università o in una scuola, come faceva all'inizio in Africa. Ma lei vuole lo stesso questo lavoro, perché vivere senza lavorare fa male, ci si sente inutili, ci si sente di non valere e di non guadagnare il denaro che ci serve. Forse capirai meglio da grande, ma intanto mi devi credere. Perché l'ho provato anch'io. Alla fine di una giornata di lavoro, qualunque lavoro onesto, ci si sente bene e in pace, di aver fatto qualcosa di buono per se stessi e per tutti gli altri. Il lavoro ti collega col resto del mondo, un po' come fa il SYM: hai presente?”
“Ah!” fece Abu più attento. Poi disse:
“Sì, ma i bambini mi dicono muso nero figlio di serva.”
“Questi bambini sono veramente....meglio non dire la parola che ho sulla punta della lingua! -esclamò Gigliola. - I bambini sanno essere molto crudeli, a volte. La tua mamma non è affatto una serva, è una donna che lavora. Ora mi aiuta anche nel doposcuola e lì è una maestra, un'insegnante... lo vedrai da te se verrai con noi. E la tua pelle ha un bellissimo colore. Meglio della mia. Non lo vedi?" Disse Gigliola accostando il braccio a quello di Abu.
“ Non lo so... ma io, anche se mi chiamano così, non voglio più andare via di qui. Qui ci sono i miei amici, quelli che mi vogliono bene, i compagni di scuola. Io da grande voglio fare il contadino, come il nonno del mio amico Gino.”
“E perché vuoi fare il contadino?”
“Perché ha detto il suo nonno che il contadino non va mai via, non va nemmeno in vacanza, ha sempre delle cose da fare, le mucche, i conigli, le galline, il campo e l'orto. Voglio fare quello e stare sempre in un posto!”
“Eh sì.. -pensò Gigliola- Quel bambino ne aveva avuto abbastanza di viaggi, permanenze in campi profughi, spostamenti con mezzi di fortuna...Aveva bisogno di pace e stabilità.”
Nei giorni seguenti si misero in moto parecchie cose. Gigliola e Nthanda imbiancarono la casina, e i genitori di alcuni bambini del doposcuola le aiutarono. Gigliola si divertì moltissimo a scegliere in casa propria dei mobili da mettere nella casina, che non era del tutto arredata. Poi si accorse che stava esagerando e disse a Nthanda di continuare da sola, di aggiustarsi come voleva, che in quella casina doveva starci lei col suo bambino. Quando Gigliola andò a prendere le poche cose di Nthanda alla stamberga, come la chiamava mentalmente, trovò che invece era diventata un alloggio grazioso. Suggerì alla Cristina di assegnarlo alla famiglia di Chen, che viveva con molti altri parenti e che fu felice di andare a stare per conto proprio. Pare che non vedessero l'ora, avevano l'intenzione di andare a vivere a Prato, per allontanarsi da quella famiglia opprimente. Al posto loro arrivarono altri parenti cinesi. “Il mondo si muove!” Pensò Gigliola.